Camillo Berneri: come rendere il lavoro attraente
« Il lavoro, nelle società schiaviste, è una maledizione. Ma anche al di fuori della costrizione servile esso è una pena » [1]: chi non concorda col pensiero dello scrittore anarchico Camillo Berneri ( 1897-1937 ) ?
D’altro canto, ricorda Berneri, « per la morale cristiana il lavoro è imposto da Dio all’uomo come conseguente pena del peccato originale. Il Cattolicismo antico e quello medioevale nobilitano il lavoro specialmente come espiazione ».
Senza scomodare la religione, Karl Marx nel suo “Capitale” ci ricorda come il lavoro « usurpa il tempo che esigono la crescita, lo sviluppo ed il mantenimento del corpo in buona salute. Esso ruba il tempo che dovrebbe venir impiegato a respirare l’aria libera ed a godere della luce del sole ».
Secondo Camillo Berneri, tuttavia, se è vero che « il lavoro è sempre una fatica » e maggiormente vero che « l’elemento negativo del lavoro è la noia. La noia è un elemento depressivo ».
« Il problema – allora – sta nello stabilire come possa diventare per tutti una fatica piacevole. Un’attività è piacevole quando risponde ad un impulso spontaneo. Una passeggiata è piacevole, mentre una marcia forzata è una pena ».
Di conseguenza, « dato che ogni lavoro è tanto più faticoso quanto meno è interessante, ognuno si stancherà meno, quindi lavorerà più e meglio, quando potrà svolgere la sua attività nel campo preferito ».
Sembrerebbe la riedizione del detto di Confucio: “scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno”.
Ma non è così facile.
« Ciò non è possibile – spiega infatti Camillo Berneri – senza l’emancipazione economica e lo sviluppo tecnico del lavoratore ».
Qui sembra stia il problema della fatica del lavoro.
Il dibattito sul lavoro nell’anarchismo
Berneri, infatti, cita a questo punto Luigi Fabbri (anarchico e saggista, 1877-1935): « nella società attuale basata sulla lotta e sulla concorrenza, il lavoro è nella maggior parte dei casi una servitù, per molti addirittura (specie pel lavoro manuale) un segno di inferiorità. La maggioranza lavora perché vi è costretta dal bisogno e dal ricatto della fame, o vi è spinta dalla promessa o dalla speranza di un premio, di un miglioramento, di poter uscire dalla classe degli sfruttati per entrare in quella dei privilegiati ».
La conclusione di questa premessa è chiara: occorre superare la società basata sulla concorrenza, sul libero mercato. E’ necessario, insomma, giungere a una società comunista ( nel senso di anarchica, non “socialista” ).
Ma, in tal caso, rileva lo scrittore, è necessario « che l’Anarchismo precisi, fisse restando le grandi linee tendenziali e le finalità ultime, i mezzi e i metodi del suo divenire come ordine nuovo ». Infatti, spiega, citando sempre Luigi Fabbri, « l’esistenza di individui che “vogliono vivere anarchicamente” presuppone che essi “abbiano voglia di lavorare”; altrimenti non vi sarebbe alcuna anarchia possibile ».
« Un grande numero di anarchici – constata però Berneri – oscilla tra il “diritto all’ozio” e “l’obbligo del lavoro per tutti” ». Che poi concepisce e propone « una formula intermedia: “nessun obbligo di lavorare, ma nessun dovere verso chi non voglia lavorare” ».
Una via di mezzo è, forse, quella proposta da Mario Rapisardi (poeta catanese, 1844-1912): « Lasciate che l’uomo lavori quanto può e riposi quanto vuole. A voler tutto disciplinare, si fa dell’uomo una macchina e della società un convento e una galera ».
Tuttavia, ragiona Berneri, « nell’insieme del lavoro industriale, i limiti dell’autonomia sono molto ristretti e rimarranno tali per molto tempo ».
In verità, secondo in più volte citato Luigi Fabbri e secondo l’epoca in cui questi visse, « il lavoro, anche in anarchia, dovrà quindi rispondere alle necessità della produzione, per soddisfare tutti i bisogni individuali e sociali della vita comune; dovrà essere organizzato cioè secondo le richieste di prodotti da parte di tutti, e non certo al semplice scopo di esercitare i muscoli ed il cervello dei produttori. Può darsi che in molti casi l’utile possa coincidere col dilettevole; ma ciò non è possibile sempre; e dove tale coincidenza non vi sarà, l’utile sociale dovrà avere il sopravvento ».
« Il “lavoro attraente” presuppone, se generalizzato, non solo la libera scelta e il diritto a variare occupazione, conciliati con le necessità della produzione, ma anche l’assorbimento da parte della macchina di molte attività lavorative affatto attraenti », stabilisce quindi lo scrittore anarchico.
In secondo luogo, aggiunge, non potendosi « evitare l’automatismo » di taluni lavori, occorre adeguatamente « alternare lavoro e riposo » per far fronte a quel lavoro « mancante di interesse che lo rende gravoso ed abbrutente ».
La proposta di Camillo Berneri per un “lavoro attraente”, in pillole
Insomma, a leggerla così come intendiamo il pensiero di Berneri, sarebbe una questione di :
- superare « la società attuale basata sulla lotta e sulla concorrenza » in maniera tale da riconoscere condizioni di lavoro dignitose e salari sufficienti;
- superare il « ricatto della fame » ( ma Berneri non spiega come se poi aggiunge « nessun dovere verso chi non voglia lavorare »; io ci avrei messo il diritto ad un “Reddito di Base” che sostenesse comunque i bisogni fondamentali di alimentazione, vestiario e abitazione );
- cedere alle macchine « molte attività lavorative affatto attraenti »;
- proporre, fintanto sia possibile. un’attività « nel campo preferito »;
- infine ridurre l’orario di lavoro e di prevedere un numero adeguate di giornate di riposo totale e rigenerazione.
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Fonti e Note:
[1] Liber Liber, Camillo Berneri, “Il lavoro attraente”.
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