Berkman: il carcere non recupera, è solo vendetta di Stato
« Nel tentativo di sostenere la propria sicurezza, la società esclude alcuni elementi, definiti criminali, dal consesso della vita sociale, rinchiudendoli in prigione. Ma la società trae beneficio da questa protezione? Il carcere protegge davvero? ».
Così, ponendosi questa domanda, inizia il pamphlet di Alexandr Berkman pubblicato ad inizio dello scorso secolo [1].
Questa, anzi, è la domanda chiave che psicologi, sociologi, politici si domandano da un bel pezzo.
Una domanda dall’apparente semplice, ed affermativa, risposta.
Secondo Berkman, tuttavia, la risposta non è così scontata.
L’autore inizia la propria riflessione partendo dal principio che la reale unica motivazione del carcere è quella dello « spirito di vendetta », uno spirito – spiega – già presente « tra le razze barbare e semicivilizzate », spirito che « assume i tratti di un fanatismo religioso ».
Alexandr Berkman è didascalico nella sua spiegazione: « il progresso sociale tende a contenere ed eliminare la consuetudine della vendetta diretta e personale. Nelle cosiddette società civili, l’individuo, in genere non vendica i torti subiti. Delega i suoi “diritti” in tal senso allo stato, al governo, il quale, tra i suoi “doveri”, ha appunto quello di vendicare i torti subiti dai cittadini attraverso la punizione dei colpevoli ».
Il principio quindi è: « un’offesa ai danni di un individuo è interesse di tutti; danneggiando un cittadino, si colpisce la società tutta ».
Lo stesso « principio secondo cui la punizione deve essere proporzionale al reato – continua Berkman -, conferma ulteriormente la natura dell’istituzione della pena: in esso è manifesto lo spirito veterotestamentario incarnato nella frase “occhio per occhio, dente per dente” ».
Berkman: da nemico dell’individuo il detenuto diviene nemico società
Secondo lo scrittore ed attivista anarchico russo-americano, però, « i risultati conseguiti dall’istituzione penitenziaria sono esattamente l’opposto di quelli previsti. La forma moderata di vendetta “civile” uccide, in senso figurato, il nemico del singolo cittadino, ma genera, al suo posto, il nemico della società».
In buona sostanza, « se l’istituzione penitenziaria, da un lato, protegge la società dal prigioniero finché rimane tale, dall’altro coltiva i germi dell’odio e dell’ostilità nei confronti della collettività ». Sentimento che si aggrava quando, rimesso in libertà, « è ridotto al rango di paria della società ».
Oltre che questa condizione psicologica, Berkman esamina la condizione materiale del prigioniero: « l’esistenza promiscua dei detenuti all’interno del medesimo istituto, indipendentemente dal tipo di reato commesso, fa delle prigioni delle vere e proprie scuole del crimine e dell’immoralità », scrive. « Solo la benevolenza produce effetti realmente educativi, ma questa qualità è qualcosa che non fa parte del trattamento dei prigionieri », aggiunge.
Berkman: attuali condizioni carcere trascinano verso recidiva reati
Nel pamphlet “Le prigioni e il crimine” (1906), Alexandr Berkman si da poi all’amara ironia: « i fondi annualmente spesi per il mantenimento delle prigioni potrebbero essere investiti, ottenendo gli stessi risultati con minor danno, in titoli di stato del pianeta Marte o inabissati nell’Atlantico ».
Il motivo è semplice, conclude: « nessuna pena, per quanto severa, potrà risolvere il problema del crimine finché le attuali condizioni, dentro e fuori il carcere, continueranno a trascinare gli uomini verso il delitto ».
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Fonti e Note:
[1] Alexandr Berkman (1870 – 1936), “Le prigioni e il crimine” (1906).
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