Democrazia Diretta: non è tutto rose e fiori

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Non dobbiamo considerare la democrazia diretta come un dogma. Anche questo modello di governo, che a prima vista può apparire ideale, presenta delle criticità nel garantire l’effettiva autonomia del Popolo. È quindi opportuno ascoltare anche voci critiche, come quella di  Michele Radicati[1], studente di storia e filosofia ad Arezzo. Egli afferma con convinzione che la democrazia diretta non funziona, portando numerosi esempi storici a sostegno della sua tesi.

La sua posizione è chiara e risoluta. Egli è convinto «che la democrazia diretta sia assimilabile alla dittatura, una dittatura in cui la parte del leone è fatta non da una singola persona, bensì da uno stuolo di automi, di persone non persone, rese tali dal proprio leader». Radicati qui mi sembra stia così descrivendo un regime totalitario. La motivazione che fornisce a sostegno della sua opinione è piuttosto semplice: «le persone non sono in grado di sapere cosa sia meglio per loro. Sono volubili, manipolabili, facili allo scontro e alla violenza e, sicuramente, non sono buone per natura». Fin qui nulla di nuovo: il giovane sta sostanzialmente riproponendo le tesi di Montesquieu e di Madison alle quali, a mio parere, ben risponde Malatesta come vedremo più avanti.

Ma Michele Radicati sostiene pure che la democrazia rappresentativa possegga la capacità di rappresentare tutti, anche le minoranze. Con la democrazia diretta, invece, secondo lui, si avrebbe una dittatura della maggioranza se non una vera e propria dittatura reale.

La prima affermazione, a mio avviso, appare piuttosto debole. Le leggi elettorali a carattere maggioritario e le soglie di sbarramento spesso cancellano la rappresentanza delle minoranze in Parlamento. Anche quando presenti, queste minoranze hanno limitate possibilità di influire sul processo legislativo, specialmente se la separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu non è effettiva e è loro precluso un’adeguato accesso ai mass media

Quanto alla seconda affermazione, che prefigura una possibile degenerazione della democrazia in tirannia, il pensiero di Radicati sembra riecheggiare le riflessioni di Platone nella Repubblica.[2] Tuttavia, a mio giudizio, le sue conclusioni sono state ampiamente contestate da filosofi come Aristotele, Polibio e altri. Piuttosto che temere la tirannia, mi preoccuperei del totalitarismo, il cui carattere e origini Hannah Arendt descrive efficacemente nel suo Le origini del totalitarismo (1951). Secondo Arendt, il totalitarismo nasce dall’esclusione sociale e politica di una massa maggioritaria della popolazione, una condizione che considero attuale visti i livelli presenti in Italia di povertà assoluta e relativa e di crescente astensionismo elettorale.

Lo studioso di Arezzo, nel suo scritto, si fa quindi portavoce di quella stabilità che è un valore nell’ordine capitalistico richiesto dalle Istituzioni sovrannazionali che lo governano ma che, a mio parere, risulta in contrasto col diritto, previsto anche dalla Costituzione, di perseguire una politica nazionale radicalmente alternativa.

Michele Radicati, infine, cita l’aforisma attribuito a Biante di Priene e posto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: Oi plestoi kakoi. Lo studioso di storia e filosofia traduce il testo greco così: «I più sono cattivi», intesi anche come stupidi, ignoranti. Secondo l’autore dell’articolo, un leader populista, un Pericle contemporaneo, cercando consapevolmente l’appoggio degli strati più bassi della popolazione, potrebbe manipolare e dominare un’assemblea democratica di stampo ateniese, quindi diretta, arrecando danni potenzialmente maggiori rispetto a quelli derivanti da una democrazia rappresentativa stabile.

Questo, in effetti, è il vero punto debole della democrazia diretta. L’antropologo e psicologo francese Gustave Le Bon[3] avvertiva già i lettori a riguardo. Scriveva infatti: «Le idee suggerite alle folle possono diventare predominanti soltanto se rivestono una forma semplicissima, che per di più sia traducibile in immagini». «Gli oratori che sanno maneggiare le folle – proseguiva Le Bon – ricorrono sempre ad associazioni di questo tipo. Sono le sole che possono avere effetto. Una catena di ragionamenti rigorosi sarebbe totalmente incomprensibile alle folle». Pertanto, «seguendo l’impulso del momento la folla […] commetterà, di conseguenza, gli atti più disparati». L’ultimo pericolo descritto da Radicati esiste quindi concretamente e richiede l’individuazione di adeguati contrappesi.


Fonti e Note:

[1]  RADICATI Michele, 9 luglio 2020, dal sito web SuperUovo: Populismo, demagogia, democrazia diretta: questioni di oggi nate ad Atene.

[2]  PLATONE (428 a.C., 328 a.C. circa), Repubblica, trad. Giovanni Caccia, Newton Compton Editori, Roma 2019. ISBN: 978-88-541-1135-6, pp. 501 e 505.

«Quando un città democratica, assetata di libertà, viene ad essere retta da cattivi coppieri,si ubriaca di libertà pura oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti […], accusandoli di essere scellerati e oligarchici. […] l’eccesso produce di solito un grande mutamento in senso contrario […]. L’eccessiva libertà non sembra mutarsi in altro che nell’eccessiva schiavitù, tanto per il singolo quanto per la città. Ed è quindi naturale che la tirannide si formi solo dalla democrazia, ossia dall’estrema libertà si sviluppi la schiavitù più grave e più feroce».

[3]  LE BON Gustave (1841-1931), Psicologia delle folle, 1895, trad. Lisa Morpurgo, Tascabili degli Editori Associati, Milano 2017, Pp. 88 e 93. ISBN: 978-88-502-0624-7. Ed anche sul sito web Rivista Criminale.

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